domenica 29 novembre 2009

D'Alema, Violante e Castelli mi dissero che c'entrava Berlusconi

Da "il Riformista" del 27 Novembre 2009

Costanzo racconta il suo attentato
Io, la bomba e Spatuzza
di Fabrizio D'Esposito


Dice Maurizio Costanzo: "Il mio attentato fu anomalo rispetto agli altri di quella stagione stragista. La mafia aveva un conto aperto con me e voleva regolarlo".
il titolare del talk-show più longevo della tv italiana riapre il suo capitolo personale sul Novantatrè degli attentati a Roma, Firenze e Milano. A lui doveva toccare il 13 maggio dopo una puntata del Maurizio Costanzo Show.

Il radiocomando dell'autobomba però si inceppò. Tutto rinviato di 24 ore. Il commando mafioso è di sette persone tra cui Gaspare Spatuzza, il pentito che h svelato l'identità di Autore1 e Autore2 quali presunti mandanti della stagione stragista, ossia Silvio berlusconi e Marcello Dell'Utri. Il 14 maggio a Via Fauro, ai Parioli, l'ordigno esplode al passaggio di Costanzo. In macchina con la moglie Maria De Filippi, l'autista e il cane. Tutti salvi.

Secondo Spatuzza, la strategia mafiosa della tensione aveva mandanti politici ben precisi.
Non ci crederei nemmeno se mi portassero davanti il pentito e me lo dicesse. Penserei a un ventriloquo.
Ci sono dei verbali.
Senta, io questa storia la so da tempo. Dopo il processo di Firenze sulle stragi, fui avvicinato nello stesso periodo ma in diversi momenti da tre persone: D'Alema, Caselli e Violante. Tutti e tre mi dissero più o meno la stessa cosa: "Guarda che il mandante del tuo attentato è Berlusconi". Non ci ho mai creduto. Assolutamente.
Però c'è chi collegò la bomba al suo dissenso, dentro Mediaset, alla discesa in campo del Cavaliere.
E che c'entra? Anche Confalonieri era contrario. No, guardi, la storia dell'attentato di via Fauro è un'altra. Almeno per come l'ho ricostruita in vari passaggi.

Costanzo si ferma. Sulla scrivania c'è la sentenza del processo di Firenze sugli esecutori delle stragi. All'inchiesta della procedura di Vigna lavorò anche un magistrato che oggi non c'è più, Gabriele Chelazzi. Il pm scoprì che la mafia di Riina e Bagarella voleva eliminare Costanzo già alla fine del '91. L'attentato fu programmato per gennaio-febbraio dell'anno successivo. Una sera il giornalista fu seguito ma non andò a casa. Sempre ai Parioli, si diresse altrove, in una strada piena di polizia. Lì abitava l'allora ministro degli interni Enzo Scotti. Si era rotto una gamba. E Costanzo andava a trovarlo. Il piano fallì e per mesi i corleonesi di Riina e Bagarella e i catanesi di Santapaola si palleggiavano un nuovo tentativo. I catanesi s'infiltrarono persino tra gli spettatori del MCS, approfittando di una trasferta del gruppo Condorelli della Sicilia. In merito, gli inquirenti hanno interrogato anche l'attore Leo Gullotta, testimonial dei torroncini. Ma i catanesi non andarono oltre. Così si arriva al 14 maggio 1993. La conversazione riprende con una domanda di Costanzo.

Sa cosa mi disse dopo un famoso poliziotto?
No.
Che ero stato fortunato, perché se avessero agito i catanesi avrebbero usato i mitra e non le bombe. La verità è che io ho avuto un c..o che la metà basta. Io, mia moglie, l'autista, il cane ci siamo salvati per tre secondi.
il radiocomando fu azionato quando la sua auto stava oltrepassando quella con la bomba.
Un colpo di fortuna. Il pomeriggio del giorno prima, il mio solito autista mi aveva avvertito che non poteva venirmi a prendere dopo la puntata. Mi mandò un'altra auto e questo spiazzò i sicari. Mi individuarono in ritardo. Il cratere scavato dalla bomba era largo oltre un metro. io pensai allo scoppio di una tubtura del gas e lo dissi anche ai miei figli per telefono.
Se Berlusconi e la stagione stragista non c'entrano nulla, perché la mafa voleva ammazzarla?
Fu per la puntata del '91 dopo l'omicidio di Libero Grassi. La sera del 20 settembre io da Roma su Canale 5 con il mio show e Michele Santoro con Samarcanda su Raitre, in collegamento da Palermo, demmo vita a un evento rimasto unico nella storia della tv. Rai e Fininvest contro la mafia. Con me, sul palco del MCS, c'era anche Giovanni Falcone.
E poi?
Da allora iniziai ad occuparmi sempre più spesso di mafia, anche in maniera solitaria. Da me sono venuti il giudice Di Maggio, la nuora di Bontade. All'allora guardasigilli Martelli chiesi anche di mandare negli ospedali militari i mafiosi malati. Entrai pesantemente nella loro vita e Riina esplose contro di me: "Questo Costanzo c'ha rotto i coglioni".
Un contro personale con lei regolato in una fase ancora da chiarire della nostra storia. L'autobomba di via Fauro, per esempio, era di un uomo che lavorava per una società vicino al Sisde.
Si è detto anche che in via Fauro c'è un ufficio coperto dai servizi. Ma io sono sicuro, l'attentato contro di me non rientrava in quella strategia.

venerdì 27 novembre 2009

Quel giorno ad Arcore quando Craxi suggerì a Berlusconi di fondare un partito

dal Corriere della Sera del 12 Aprile 1996, Pagina 3

L'ex dc Ezio Cartotto racconta in un libro la "vera" storia di Forza Italia
"Bettino voleva una sigla che potesse unire gli elettori del pentapartito"

di Battistini Francesco

MILANO - Ha taciuto tre anni. Ora che l'hanno fatto fuori ("cacciato dall'oggi al domani - dice - si sono dimenticati di come ho messo in piedi Forza Italia"), ha deciso di raccontare in un libro la "vera" storia del partito di Berlusconi. E di svelare quel che molti hanno sempre sospettato, ma nessuno ha mai provato: che dietro la discesa in campo del Cavaliere c'era Bettino Craxi. Ezio Cartotto, cinquantatreenne ex dc, portaborse di Marcora prima e prandiniano poi, incarichi all'Eni e all'Atm, "amico di Berlusconi dal '71", tre anni e mezzo fa entrò nello staff che preparava il nuovo movimento: ufficio all'ottavo piano di Palazzo Cellini a Milano 2, a fianco di Marcello Dell'Utri, partecipò a decine d'incontri segreti in via Rovani. Circa un mese fa è stato interrogato dai magistrati torinesi Luigi Marini e Cristiana Bianconi, che indagano sull'"operazione Botticelli" e sui presunti fondi neri passati da Publitalia a Forza Italia: gli hanno chiesto conto di alcune fatture, lo considerano un testimone importante. Cartotto sa molte cose, ne ha annotate altrettante, ha conservato ogni documento. E nel libro scritto per l'editore napoletano Tullio Pironti (titolo provvisorio: "Fa' come ti dice lui"), con un ex collaboratore che si nasconde dietro lo pseudonimo di Evangelista de' Gerbi, ricostruisce i mesi passati "alla tela di Penelope, con noi che lavoravamo e Silvio che smentiva". Il capitolo principale è dedicato a quella domenica 4 aprile 1993. Un momento terribile, per il Cav: i conti svizzeri di Tangentopoli, Andreotti indagato per mafia a Palermo, due settimane ai referendum di Segni, la lira oltre quota mille sul marco, la Lega che fa penzolare un cappio in Parlamento e i giovani missini che circondano Montecitorio. Il Psi è già a pezzi: Craxi ha ricevuto 11 avvisi di garanzia, il suo attachè Giallombardo è latitante all'estero, Benvenuto mette all'asta i beni del Garofano. Alle sei del pomeriggio, sotto la pioggia, Cartotto si fa accompagnare ad Arcore dal figlio Davide, 21 anni. Viene fatto accomodare nello studio piccolo di Villa San Martino, davanti alle foto di Benedetto Croce, saluta Berlusconi e si sente dire: "Sai, c'è qui una persona...". L'incontro con Bettino dura tre quarti d'ora, racconta Cartotto. Esordisce il Cavaliere, che da mesi lavora al nuovo partito: "Sono esausto - si sfoga - m'avete fatto venire l'esaurimento nervoso. Confalonieri e Letta mi dicono che è una pazzia entrare in politica e che mi distruggeranno. Che mi faranno di tutto, andranno a frugare tutte le carte. E diranno che sono un mafioso... Cosa devo fare? A volte mi capita perfino di mettermi a piangere, quando sono sotto la doccia". Craxi ascolta in silenzio. Allora parla Cartotto: cita Segni, il pericolo Lega, la Rete, i rischi dell'uninominale, finisce con Martinazzoli. Sentendo quel nome Craxi, che nel racconto "cammina nervosamente avanti e indietro, non si siederà quasi mai", interrompe: "Martinazzoli è della sinistra democristiana - dice a Berlusconi -, e per te è peggio di Occhetto. Quelli della sinistra dc sono i tuoi nemici, ricordatelo sempre, più di quelli del Pds. Non farti illusioni. Se bisogna fare una coalizione di centro non comunista, con asse portante Martinazzoli, per te sarebbe una soluzione più pericolosa del danno che vogliamo evitare". E allora? A Bettino piace l'idea d'un partito: "Bisogna trovare un'etichetta - dice -, un nome nuovo, un simbolo, un qualcosa che possa unire gli elettori che un tempo votavano per il pentapartito. Sarebbe importante distinguere tra Nord e Centro Sud...". Il leader del Garofano, racconta Cartotto, vede bene un accordo con la Lega nei collegi del Nord e con i notabili dc e psi al Meridione. Berlusconi però è freddo: Bossi non gli piace, mentre stare con Fini al Sud sarebbe meglio... "Allora Craxi - si legge nel libro - prende un foglio di carta, ed è uno dei pochi momenti nei quali si siede. Comincia a fare dei cerchietti. Dice: "Questo è un collegio elettorale. Gli elettori saranno presumibilmente 110 mila persone e 80-85 mila quelli che avranno diritto al voto. Quelli che andranno a votare saranno 60-65 mila. Prendendo in considerazione queste persone e con l'arma che tu hai in mano delle tv, attraverso le quali puoi fare una propaganda martellante a favore di questo o quel candidato, ti basterà organizzare un'etichetta che riesca a raggrupparne 25-30 mila, per avere forti probabilità di rovesciare il pronostico. Accadrà per l'effetto sorpresa, per l'effetto televisione o per l'effetto del desiderio che gli elettori non comunisti hanno di non essere governati dai comunisti". Bettino insiste, cerca di convincere l'amico Silvio: "Se trovi una sigla giusta, con le tv e le tue strutture aziendali... Hai uomini sul territorio in tutta Italia, puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso, ma anche deciso a non farsi governare dai comunisti e a salvare il salvabile". A quel punto, racconta Cartotto, Craxi se ne deve andare. Berlusconi l'accompagna. Dopo qualche minuto il Cavaliere rientra più disteso: "Bene - dice - adesso so quello che devo fare".

giovedì 26 novembre 2009

La vera storia di Niccolò

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Ghedini mi rovini
di Gigi Riva

È l'avvocato artefice delle leggi ad personam, l'architetto del Lodo. E anche il protagonista di smentite e gaffes che hanno messo in crisi la credibilità del premier. Ecco la sua carriera dai nuclei neofascisti al Palazzo


L'unica volta che Niccolò Ghedini si sedette dall'altra parte della barricata era un giovane avvocato di belle speranze chiamato a rispondere su certe sue pericolose frequentazioni di adolescente. Il processo era quello per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti, oltre 200 feriti). Rimase per sei minuti sulla sedia del testimone davanti al presidente della Corte Mario Antonacci. (ASCOLTA L'AUDIO) Confermò quanto aveva dichiarato il 27 settembre 1980 quando fu interrogato in questura. Gli inquirenti si erano concentrati, nelle indagini, su un gruppo di neofascisti padovani, la sua città, che avevano come punto di riferimento il quartiere Arcella. Ghedini li conosceva per una sua precocissima attività politica nel Fronte della Gioventù (l'organizzazione giovanile del Msi). Tracciò il profilo di Roberto Rinani, detto "l'Ammiraglio", imputato di concorso in strage, poi assolto: "Per la mia valutazione personale, mi dava l'idea che tra quei ragazzi, che conoscevo, fosse il personaggio di spicco".

"Quei ragazzi" erano una ventina di persone che si scontravano con i "rossi": "Si bastonavano per lo più". Si diceva, ma lui lo può affermare solo "de relato", che facessero anche uso di armi mentre "non ho mai sentito parlare di esplosivi". Negò di aver conosciuto Massimiliano Fachini (altro imputato) e sì invece che conosceva Franco Giomo: "Siamo usciti assieme un paio di volte, poi ha avuto un incidente, si è messo a fare l'assicuratore e non l'ho più visto. L'ho anche cercato qualche volta. So che ha avuto problemi con la giustizia ed è stato condannato e poi assolto".

Franco Giomo era un dirigente nazionale del Msi finito nei guai per i collegamenti con il nucleo Fioravanti-Mambro: i due che per la strage di Bologna ebbero l'ergastolo come autori materiali. Il futuro legale di Silvio Berlusconi nel 1988 aveva 29 anni e già una certa dimestichezza di aule di tribunale. Due anni prima era stato l'assistente di un principe del foro come Piero Longo, il suo maestro, nella difesa di Marco Furlan, il ragazzo della Verona bene che con Wolfgang Abel aveva dato vita alla banda Ludwig col proposito di liberare la società da drogati, nomadi, frequentatori di sale a luci rosse e preti: 15 persone uccise e 39 ferite. Durante le pause delle udienze Longo non mancava di presentare a tutti l'ancora acerbo collega con una frase rituale: "Tenete a mente il nome di questo ragazzo.
Si chiama Niccolò Ghedini. Farà strada".
Nemmeno lui immaginava quanta. Oggi lo stesso Niccolò Ghedini è, come il suo omonimo Machiavelli, il consigliere più ascoltato del Principe.

È lui che scende nell'arena delle trasmissioni più agguerrite, come "AnnoZero" per lanciare il grido di battaglia "Mavalaaa", diventato un marchio di fabbrica all'indirizzo degli avversari, ovviamente "comunisti" e "parrucconi". Lui che si offre alla stampa nei momenti delicati e al prezzo di straordinarie gaffes. Come quella proverbiale su Berlusconi che "anche fossero vere le ricostruzioni di questa ragazza (la D'Addario), e vere non sono, sarebbe al massimo l'utilizzatore finale e quindi mai penalmente punibile". O come quella sull'avvocato di Zappadu, il fotografo di villa Certosa, che "è difeso da un eurodeputato dell'Italia dei Valori. C'è una doppia veste, avvocato e parlamentare che non si dovrebbe confondere" (dal suo pulpito). O quando definisce le registrazioni della D'Addario inverosimili e frutto d'invenzione perché "non credo sia mai andata a casa di Berlusconi" quando proprio "L'espresso" le ha rese disponibili con la voce del premier chiaramente identificabile.

E fossero solo le gaffes. Ghedini è l'architetto delle leggi ad personam che hanno salvato il presidente da molti processi, lo stoico resistente d'aula che opponendo impedimenti, codicilli, astuzie procedurali, è riuscito a rinviarne altri fino al lodo Alfano che li ha sospesi e sulla legittimità del quale la Consulta si pronuncerà il prossimo 6 ottobre. Salvo avere l'impudenza di affermare che non è affatto contento che non si arrivi mai a sentenze perché sarebbero "senza dubbio favorevoli". È anche l'uomo che sveglia il presidente del Consiglio per rendergli noto che Veronica, la moglie, ha scritto lettere contro di lui ai giornali o ha chiesto il divorzio, che vuole una legge per rendere impossibile la pubblicazione delle intercettazioni.

Ora allarga la sua sfera d'azione, il ruolo "tecnico" non gli basta più. Media col Fini furibondo per la querela al "Giornale" di Feltri, attacca la Lega che vorrebbe la presidenza del Veneto e la accusa di fare una battaglia medievale di chiusura "per la polenta e contro l'ananas". Un lavoro indefesso, matto e disperatissimo, per alzare una corazza e far scudo all'uomo che gli ha cambiato l'esistenza. Nega se lo si definisce il ministro ombra della Giustizia. E in realtà anche quella carica occulta gli starebbe stretta. Senza avere un ruolo istituzionale preciso, se non quello di semplice deputato, ha sbaragliato, nel cuore di Silvio, tutti i possibili rivali. Fossero essi colombe o falchi. Si è fatto molti nemici, ma tira dritto per la sua strada e del resto sa di essere "una carogna" (autodefinizione). Dal nuovo ruolo di presidente della Consulta giustizia del Popolo delle libertà controlla le terminazioni nervose del sistema più sensibile del berlusconismo. E pensare che fino a un certo punto della sua vita non aveva pensato né alla politica né alla carriera legale: voleva fare l'agricoltore, gli interessava la terra.
E questa è la sua storia.
Quando nasce, il 22 dicembre 1959, Niccolò ha tre sorelle. Nicoletta, 17 anni, Francesca, 15, e Ippolita, detta Ippi, 9, il cui nome è un omaggio esplicito alla mitologica regina delle Amazzoni. Il padre Giuseppe, ex ufficiale di cavalleria, ha una passione per l'equitazione almeno pari a quella per il diritto: dna perfetto per il futuro assistente del Cavaliere. È un famoso penalista, schieratissimo a destra, originale e passionale. Non di rado nello studio volano i posacenere. L'arcigna madre Renata tiene le redini di un'educazione rigida e consona al rango di una famiglia dell'alta borghesia con una venatura di nobiltà se si fa fede al Niccolò che dichiarerà: "Nel 1600 i miei antenati furono insigniti del blasone patrizio per particolari meriti resi alla Serenissima Repubblica di Venezia". Lo stemma è un orso feroce con la spada sguainata: quasi una rappresentazione dell'immagine che vorrà dare di sé. Le ragazze hanno il percorso canonico delle bennate di Padova. Le scuole al Sacro cuore, il classico al Tito Livio. L'ultimogenito è il cocco di casa.Molto sport: nuoto, sci, cavallo con qualche gara vinta. Poco studio: "Ero un asino". Racconterà di essere caduto da un'impalcatura, in prima media, mentre cercava di sputare in testa agli orchestrali di passaggio nella strada. Lo mandano al collegio Barbarigo dove fatica, ogni anno, ad arrivare alla sufficienza, "ma non sono stato mai bocciato".
A 13 anni, la svolta dolorosa. Muore il padre. Nicoletta e Ippolita sono costrette a occuparsi dello studio perché ne hanno seguito le orme. Francesca ha il pallino dell'archeologia. E Niccolò è già in politica. Un nero deciso, negli anni in cui, come altrove, non esistevano le mezze misure e a Padova restava viva una tradizione neofascista nata con Franco Freda e con la cellula di Ordine Nuovo impegnata nella strage di Piazza Fontana. Occupa il tempo che gli rimane nelle due aziende agricole di famiglia che producono vino e olio e coltiva il sogno di iscriversi ad agraria. Conosce, quindicenne, la donna della sua vita, Monica Merotto, figlia del titolare di un'oreficeria, che si laurerà a Cà Foscari con una tesi su "Federico II ed Ezzelino II da Romano nel territorio padovano" e gli darà, molto tempo dopo, un figlio chiamato Giuseppe, come il nonno, oggi dodicenne.

Le scelte irrevocabili dell'adolescenza, si sa, possono cambiare rapidamente. Non è ancora maggiorenne, Niccolò, quando abbandona l'estremismo per le acque più placide del Partito liberale in cui si distingue un leader che ha per nome Giancarlo Galan, attuale governatore del Veneto. E anche la terra può attendere se tutto il mondo che ti circonda lascia intendere che un Ghedini non può non essere un avvocato. Padova è facoltà di tradizione, troppo difficile. Per "l'asino" Niccolò molto meglio ripiegare su Ferrara, dove si laurea. Quando finalmente può mettere piede nello studio di via Altinate 86, davanti al tribunale, trova un signore che sarà parte importante del suo destino. È successo che le sorelle, civiliste, hanno rafforzato la squadra con un penalista. E non uno qualsiasi, ma col professor Piero Longo, nato ad Alano di Piave nel 1944, figlio del direttore delle Poste di Venezia, uno che non si preoccupa di manifestare la sua aperta simpatia per l'estrema destra. Lo ricordano allievo del Marco Polo, mentre brucia in piazza San Marco le bandiere cubane al tempo della crisi dei missili. Intelligenza fine, anche spregiudicata. Come quando cercò di iscriversi in un movimento di sinistra coerente con la strategia dell'"entrismo" professata da certa destra rivoluzionaria. Brillante studente a Padova e poi subito assistente con un rapporto al minimo rude con quelli di sinistra se, quando non lo salutavano in biblioteca, li apostrofava più o meno così: "Fate i furbi con me ma io vi faccio un mazzo (eufemismo) così". Tra l'accademia e la professione privilegia la seconda e non si dimentica dei vecchi camerati e li difende nello storico processo per la ricostituzione del partito fascista (1975). La sua perizia però non evita la condanna per tutti. Si dice di Longo perché, almeno a Padova, lui è considerato la mente e Ghedini sarebbe un testardo, diligente, pignolo, allievo. Che cerca, anche in un certo lessico aulico, di imitare colui che tutto gli ha insegnato.

Proverbiali alcune frasi pronunciate con la voce cantilenante che abbiamo imparato a conoscere: "Ella, signor giudice...". Sta di fatto che, per quelle circostanze fortunate che capitano agli umani, Niccolò finisce, e siamo alla metà degli anni Novanta, a fare il segretario delle Camere penali quando Gaetano Pecorella ne è presidente. È Pecorella che lo introduce alla corte di Arcore. Prima un processo, poi un secondo, poi si prende tutto. Difende il premier "gratis" nelle cause personali mentre si fa pagare per quelle che interessano Mediaset o le altre società del Sultano. Niccolò Ghedini è diventato più ricco di quanto già non fosse. Dichiara di guadagnare un milione e 300 mila euro ed è tra i Paperoni della Camera. Possiede 44 tra case e terreni tra cui una tenuta a Montalcino e la storica dimora di famiglia a Santa Maria di Sala (Venezia) dove si è fatto costruire una piscina, una cappella privata e dove ospita i vertici del Pdl veneto quando non lo stesso Berlusconi. In garage tiene una collezione impressionante di auto d'epoca. Quanto alle sorella, Francesca, direttore del dipartimento di Archeologia a Padova, bellissimi occhi chiari, l'unica rimasta nubile, è stata nominata da Sandro Bondi nel Consiglio superiore del Beni Culturali. Nicoletta, la primogenita, rimasta vedova di Paolo Favini delle omonime cartiere di Rosà, e Ippolita, moglie del procuratore di Trieste Michele Dalla Costa, sono diventate le avvocate civiliste di Berlusconi nel divorzio con Veronica Lario. Non è la sola loro causa importante. Difendono anche Luciano Cadore, un maggiordomo che ha ereditato dall'imprenditore delle pellicce Mario Conte, dove era a servizio, un patrimonio stimato dagli inquirenti in 70 milioni di euro. Cadore è indagato con l'accusa di aver falsificato il testamento e ha devoluto un milione di euro alla Libera fondazione di Giustina Destro, ex sindaco di Padova e attuale parlamentare Pdl.

Nessuno dei Ghedini ama farsi vedere in pubblico. Di Niccolò si segnala la presenza a Padova solo quando la scorta lo accompagna sotto l'ufficio con qualche disappunto dei residenti per gli intralci al traffico. Le sorelle stanno appartate. E vivono nel culto di quello che considerano il loro Grande Fratello. Lo stesso ruolo che in fondo gli ha affidato Silvio Berlusconi, concedendogli il compito di stare alla sua destra. Almeno fino a quando reggerà lo scudo del Lodo.

ha collaborato Cristina Genesin

domenica 15 novembre 2009

EL CONCURSANTE

Il film mette in evidenza quella che è la causa unificante di tutto il disordine sociale, politico, economico, territoriale, alimentare, energetico, sanitario e chi più ne ha più ne metta. Una sola parola: Signoraggio.


...mettiamo che la banca possieda in totale 100 monete d'oro, che è la quantità d'oro che esiste. 100 monete, niente di più. Oltre all'uomo "buono" esistono altre 10 persone: lei, io, un fabbro, una sarta,un poliziotto, eccetera... 10 persone in totale. Tutti abbiamo bisogno dell'oro per comprare, e tutto abbiamo chiesto un PRESTITO: 10 monete ciascuno, un totale di 100 monete...
Il banchiere ci ha dato tutto il suo oro, con assoluta generosità... in cambio di cosa? Un semplice 10%? Una monetina per persona? E' giusto, però... secondo Pitagora abbiamo un problema: se in 12 mesi dobbiamo pagare 11 monete ciascuno da dove le prendiamo? 11 monete ciascuno sono 110 monete. Questo significa che ci sono 10 monete d'interessi che non riusciremo MAI a pagare. MAI. Qualunque cosa accada. Non ci sono problemi, la banca fu creata per facilitare le cose, non per complicarla. C'è una soluzione ragionevole. "Pagatemi solo gli interessi, una moneta ciascuno. Vi aspetterò. Il prossimo anno mi pagherete la quantità prestata inizialmente". Le prime 10 monete, insomma.Quindi, se paghiamo una moneta, ce ne rimarranno 9 ciascuno. Allora se ancora dobbiamo pagare 10 monete alla fine dell'anno continueremo con lo stesso DEBITO, in più avremo MENO DENARO... se continuiamo così per altri 10 anni (sempre che ci lascino pagare solo gli interessi) alla fine rimarremo senza niente: spariranno tutte le monete e avremo ancora il debito iniziale DA PAGARE. La banca avrà recuperato tutto l'oro, noi non avremo NULLA, in più avremo ancora il debito iniziale da pagare. 100 monete tra noi tutti che non riusciremo a pagare MAI, semplicemente perché NON ESISTONO...

...saremo diventati SCHIAVI DELLA BANCA... e perché? PER NULLA e IN CAMBIO DI NULLA!