sabato 18 luglio 2009

NONSOLOMAFIA: le stragi di Capaci e di via D'Amelio

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di ATTILIO BOLZONI

Ripartono le indagini sulle stragi di mafia. Sullo sfondo dell'intrigo gli 007: uno di loro era presente in parecchi luoghi dove esplosero le bombe
Falcone e Borsellino, inchieste riaperte caccia ad un agente segreto sfregiato

CALTANISSETTA - Nessuno conosce il suo nome. Tutti dicono però che ha "una faccia da mostro". è un agente dei servizi di sicurezza. Lo cercano per scoprire cosa c'entra lui e cosa c'entrano altri uomini degli apparati dello Stato nelle stragi e nei delitti eccellenti di Palermo.

Diciassette anni dopo si sta riscrivendo la storia degli attentati mafiosi che hanno fatto tremare l'Italia. Ci sono testimoni che parlano di altri mandanti, ci sono indizi che portano alla ragionevole convinzione che non sia stata solo la mafia a uccidere Falcone e Borsellino o a mettere bombe. É stata ufficialmente riaperta l'inchiesta su via Mariano D'Amelio. É stata ufficialmente riaperta l'inchiesta su Capaci. É stata ufficialmente riaperta anche l'inchiesta sull'Addaura, su quei cinquantotto candelotti di dinamite piazzati nel giugno dell'89 nella scogliera davanti alla casa di Giovanni Falcone. Una trama. Una sorta di "strategia della tensione" - questa l'ipotesi dei procuratori di Caltanissetta titolari delle inchieste sulle stragi palermitane - che parte dagli anni precedenti all'estate del 1992 e finisce con i morti dei Georgofili a Firenze e quegli altri di via Palestro a Milano.

Gli elementi raccolti in questi ultimi mesi fanno prendere forma a una vicenda che non è circoscritta solo e soltanto a Totò Riina e ai suoi Corleonesi, tutti condannati all'ergastolo come esecutori e mandanti di quelle stragi. C'è qualcosa di molto più contorto e di oscuro, ci sono ricorrenti "presenze" - indagine dopo indagine - di agenti segreti sempre a contatto con i boss palermitani. Tutti a scambiarsi di volta in volta informazioni e favori, tutti insieme sui luoghi di una strage o di un omicidio, tutti a proteggersi gli uni con gli altri come in un patto di sangue.

I procuratori di Caltanissetta - sono cinque che indagano, il capo Sergio Lari, gli aggiunti Domenico Gozzo e Amedeo Bertone, i sostituti Nicolò Marino e Stefano Luciani - hanno già ascoltato Vincenzo Scotti (ministro degli Interni fra il 1990 e il 1992) e l'allora presidente del Consiglio (dal giugno 1992 all'aprile 1993) Giuliano Amato per avere anche informazioni che nessuno aveva mai cercato. Su alcuni 007. Primo fra tutti quell'agente con la "faccia da mostro".

É uno dei protagonisti dell'intrigo. Un'ombra, una figura sempre vicino e intorno a tanti episodi di sangue. Il suo nome è ancora sconosciuto, di lui sa soltanto che ha un viso deformato. In tanti ne hanno parlato, ma nonostante quella malformazione - segno evidente per un facile riconoscimento - nessuno l'ha mai identificato. Chi è? Gli stanno dando la caccia. Sembra l'uomo chiave di molti misteri palermitani.

Il primo: l'attentato del 21 giugno del 1989 all'Addaura. C'è la testimonianza di una donna che ha visto quell'uomo "con quella faccia così brutta" vicino alla villa del giudice Falcone, poco prima che qualcuno piazzasse una borsa sugli scogli con dentro la dinamite. Qualcuno? Sull'Addaura c'è a verbale anche il racconto di Angelo Fontana, un pentito della "famiglia" dell'Acquasanta, cioè quella che comanda in quel territorio. Fontana rivela in sostanza che i mafiosi dell'Acquasanta quel giorno si limitarono a "sorvegliare" la zona mentre su un gommone - e a bordo non c'erano i mafiosi dell'Acquasanta - stavano portando i cinquantotto candelotti sugli scogli di fronte alla casa di Falcone.

Un piccolo "malacarne" della borgata - tale Francesco Paolo Gaeta - assistette casualmente alle "operazioni". Fu ucciso a colpi di pistola qualche tempo dopo: il caso fu archiviato come un regolamento di conti fra spacciatori. Dopo il fallito attentato, a Palermo fecero circolare le solite voci infami: "É stato Falcone a mettersi da solo l'esplosivo". Il giudice, molto turbato, disse soltanto: "Sono state menti raffinatissime". Già allora, lo stesso Falcone aveva il sospetto che qualcuno, dentro gli apparati, volesse ucciderlo.
Ma l'uomo con "la faccia da mostro" fu avvistato anche in un altro angolo di Palermo, un paio di mesi dopo. Un'altra testimonianza. Confidò il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro. Siamo venuti a sapere che era anche nei pressi di Villagrazia quando uccisero il poliziotto Agostino".

Nino Agostino, ufficialmente agente del commissariato San Lorenzo ma in realtà "cacciatore" di latitanti, fu ammazzato insieme alla moglie Ida Castellucci il 5 agosto del 1989. Mai scoperti i suoi assassini. Come non scoprirono mai come un amico di Agostino, il collaboratore del Sisde Emanuele Piazza (anche lui cacciatore di latitanti) fu strangolato dai boss di San Lorenzo. Una soffiata, probabilmente. Il confidente Ilardo ha parlato anche di lui. E poi ha raccontato: "Io non so per quale ragione i servizi segreti partecipavano a queste azioni... forse per coprire determinati uomini politici che avevano interesse a coprire determinati fatti che erano successi, mettendo fuori gioco magistrati o altri uomini politici che volevano far scoprire tutte queste magagne". Un'altra testimonianza ancora viene da Vincenzo Agostino, il padre del poliziotto ucciso: "Poco prima dell'omicidio di mio figlio vennero a casa mia a Villagrazia di Carini due uomini che si presentarono come colleghi di Nino, uno aveva un viso orribile...".

L'ultimo a parlare dell'agente segreto con "la faccia da mostro" è stato Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, sindaco mafioso di Palermo negli anni '70. Ai procuratori siciliani ha spiegato che quell'uomo era in contatto con suo padre da anni. Fino alla famosa "trattativa", fino a quell'accordo che Totò Riina voleva raggiungere con lo Stato italiano per "fermare le stragi". Un baratto. Basta bombe se aboliscono il carcere duro e cancellano la legge sui pentiti, basta bombe se salvano patrimoni mafiosi e magari decidono la revisione del maxi processo.

Ma Massimo Ciancimino non ha rivelato solo gli incontri di suo padre con l'agente dal viso sfigurato. Ha parlato anche di un certo "signor Franco" e di un certo "Carlo". Forse non sono due uomini ma uno solo: un altro agente dei servizi. Uno con il quale il vecchio don Vito aveva un'intensità di rapporti lontana nel tempo. "Fu lui - sono parole di Ciancimino jr - a garantire mio padre, rassicurandolo che dietro le trattattive, inizialmente avviate dal colonnello dei carabinieri Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno, c'era un personaggio politico". Di questo "signor Franco" o "Carlo", Massimo Ciancimino ha fornito ai procuratori indicazioni precise. E anche un'agenda del padre con i loro riferimenti telefonici.

Un ultimo capitolo di questi intrecci fra mafia e apparati è affiorato dalle ultime indagini sull'uccisione di Paolo Borsellino. Un pentito (Gaspare Spatuzza) ha smentito il pentito (Vincenzo Scarantino) che 17 anni fa si era autoaccusato di avere portato in via D'Amelio l'autobomba che ha ucciso il procuratore e cinque poliziotti della sua scorta. "Sono stato io, non lui", ha spiegato Spatuzza, confermando comunque in ogni dettaglio la dinamica dei fatti e svelando che Falcone - prima di Capaci - sarebbe dovuto morire a Roma in un agguato. Le armi, fucili e pistole, a Roma le aveva portate lui stesso. Dopo un anno di indagini i magistrati di Caltanissetta hanno accertato che Gaspare Spatuzza ha detto il vero e Vincenzo Scarantino aveva mentito. Si era inventato tutto. Qualcuno lo aveva "imbeccato". Chi? "Qualcuno gli ha messo in bocca quelle cose per allontanare sospetti su altri mandanti non mafiosi", risponde oggi chi indaga sulla strage.

Un depistaggio con frammenti di verità. Agenti segreti e scorrerie in Sicilia. Poliziotti caduti, omicidi di inspiegabile matrice. Boss e spie che camminano a braccetto. Attentati, uno dopo l'altro: prima Falcone e cinquantaquattro giorni dopo Borsellino. Una cosa fuori da ogni logica mafiosa. La tragedia di Palermo non sembra più solo il romanzo nero di Totò Riina e dei suoi Corleonesi.

(17 luglio 2009)

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di ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO

L'ultima pista: "In un hotel la regia della strage di via D'Amelio"
Mafia e servizi, telefonate e carte sparite, ecco gli indizi nelle inchieste
Dalla sede degli 007 alle frasi di un pentito. E spunta anche la versione di Genchi

CALTANISSETTA - C'è puzza di spie in ogni strage siciliana. Misteri di mafia e misteri di Stato. Chiamate fatte da boss e dirette a uffici dei servizi segreti, biglietti con numeri telefonici intestati a capi degli apparati di sicurezza trovati sulla scena del crimine, esperti in bonifica ambientale in contatto con sospetti attentatori. E ancora: agende sparite (quella rossa di Paolo Borsellino), depistaggi, pentiti fasulli o pilotati. Dalle indagini sui massacri avvenuti in Sicilia fra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90 stanno affiorando complicità e patti, intrecci, una rete di "interessi convergenti".

I procuratori di Caltanissetta hanno riaperto tutte le inchieste sulle stragi ripescando vecchi fascicoli e interrogando nuovi testimoni, ripercorrendo piste frettolosamente abbandonate, scoprendo indizi che si orientano verso quelli che vengono chiamati "i mandanti occulti" o i "soggetti esterni" a Cosa Nostra.
Uno degli ultimi personaggi ascoltati dai magistrati è stato Gioacchino Genchi, uno dei protagonisti del "caso De Magistris" a Catanzaro, il consulente che 17 anni fa era con il questore Arnaldo La Barbera alla guida del "Gruppo Falcone Borsellino", il pool di investigatori che indagò fin dall'inizio sulle stragi. Gioacchino Genchi ha parlato per un giorno intero, il 16 aprile scorso. E alla fine ha indicato una traccia: "Dovete scoprire chi c'era il 19 luglio del 1992 a Villa Igiea perché lì dentro c'era la regia...".

A Villa Igiea, lo splendido albergo voluto dai Florio sul mare di Palermo, quel pomeriggio c'era - secondo Genchi - un ospite speciale che avrebbe praticamente "guidato" le operazioni per l'uccisione di Borsellino. Il consulente ha ricostruito il "movimento" telefonico nei minuti che hanno preceduto l'attentato. Ha accertato che dal cellulare clonato di un'ignara donna napoletana, A. N., sono partite prima alcune chiamate a mafiosi di Villagrazia di Carini (il luogo dove Borsellino quel pomeriggio è partito con la sua scorta), poi alcune chiamate a mafiosi di Palermo e infine - proprio quando l'autobomba è esplosa - l'ultima chiamata a Villa Igiea. Chi c'era dentro il lussuoso hotel? Chi era l'ospite innominabile che probabilmente i procuratori di Caltanissetta stanno cercando?
Un testimone che sarà interrogato nei prossimi giorni sarà il pentito Francesco Di Carlo, nei primi anni '90 rinchiuso in un carcere londinese dove ricevette una visita di quattro uomini. "Tre erano stranieri e uno italiano", ha risposto qualche anno fa al pubblico ministero Luca Tescaroli. Quattro 007. Il pentito Di Carlo non ha mai voluto fare il nome dell'agente segreto, però ha raccontato che gli 007 gli chiesero una sorta di "consiglio" su come ammazzare Falcone e Borsellino che tanto stavano dando fastidio a Cosa Nostra e ai suoi traffici. Lo stesso Totò Riina, usò per proprio tornaconto in un'udienza queste rivelazioni di Francesco Di Carlo: "Io con le stragi del 1993 non c'entro niente, chiedetelo a Di Carlo: era lui in contatto con i servizi segreti non io".

Mafia e servizi, ci sono impronte dappertutto. Di chi era quel numero di telefono trovato sul bigliettino di carta recuperato a qualche metro da dove Giovanni Brusca fece esplodere l'autostrada a Capaci? Era di L. N., il capo del Sisde a Palermo. "Era un appunto sulla riparazione di un cellulare Nec P 300 che qualcuno dei miei uomini deve avere perso durante il sopralluogo", ha risposto L. N. Fine della deposizione e fine delle indagini. C'è solo un particolare da ricordare: cellulari di quel tipo - Nec P 300 - sono stati trovati qualche tempo dopo nel covo di via Ughetti, la casa dove si nascondevano i macellai di Capaci e parlavano - ascoltati dalle microspie - "dell'attentatuni" che avevano preparato.

A chi erano indirizzate le telefonate di Gaetano Scotto - mafioso dell'Acquasanta, imputato dell'inchiesta sull'uccisione del procuratore - poco prima della strage di via D'Amelio? Al castello Utvegio, una costruzione degli Anni Venti che domina Palermo da Montepellegrino. Lì erano acquartierati alcuni "irregolari" del Sisde, i superstiti di quel carrozzone sfasciato che era l'Alto Commissariato antimafia. Spie.
E che lavoro facevano quei due fratelli di Catania, indagati l'anno scorso per la strage Falcone insieme a un noto imprenditore palermitano, che avevano a che fare con telecomandi a media e a lunga distanza? Avevano l'appalto per bonificare alcune "case" dei servizi segreti.

Coincidenze, tutte coincidenze che ora i procuratori di Caltanissetta stanno mettendo in fila e risistemando in un "quadro". Forse in passato ci sono state "carenze investigative". O forse c'è sempre stato qualcuno che non voleva spingersi oltre Totò Riina e i suoi Corleonesi.

(18 luglio 2009)

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