lunedì 20 luglio 2009

Paolo Borsellino, l'eredità di un sogno

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“Perché quello che è stato fatto è proprio cercare di fare passare l’assassinio di Paolo e di quei ragazzi che sono morti in via D’Amelio come una strage di mafia (…) Quello che invece noi cerchiamo in tutti i modi di far capire alla gente (…) è che questa è una strage di Stato, nient’altro che una strage di Stato (…) Oggi questa nostra Seconda Repubblica è una diretta conseguenza delle stragi del ‘92”.

A parlare è Salvatore Borsellino. E le sue non sono solo le parole figlie della perdita del fratello magistrato nella deflagrazione di un’autobomba, ma di un cittadino lucido che, nonostante tutto, conserva in sé la fiducia nella forza delle Istituzioni e della Giustizia. Non trucidato dalla mafia, dunque, ma dallo Stato stesso di cui era servitore. Con la Seconda Repubblica che nasce sulle ceneri di quell’assordante boato che ha fatto tremare Palermo il 19 luglio di diciassette anni fa. Il sogno di liberare la Sicilia, e con essa tutta l’Italia, dal “puzzo del compromesso morale”, è la spinta che animava tanto Borsellino quanto Falcone. Da La Kalza di Palermo, periferia sociale ed economica della città, alle aule di Tribunale: una parabola, quella dei due protagonisti della prima Procura anti-mafia, che determina in modo nuovo e originale la battaglia contro la criminalità organizzata. Perché Borsellino e Falcone non solo hanno, per la prima volta, definito i contorni di ‘cosa nostra’, processandone i suoi esponenti di spicco nell’aula bunker dell’Ucciardone, ma ne hanno conosciuto e indicato la mentalità, i linguaggi, i codici, i simboli, avendoli appresi a La Kalza, da dove Falcone proveniva. Stesso quartiere e stessa infanzia di Tommaso Buscetta.

“Nuddu miscatu cu nenti”, cioè nulla mischiato col niente, è la formula con cui comincia l’iniziazione nelle famiglie, la cooptazione di nuovi affiliati ai mandamenti e alle cosche. E’ questo il messaggio che la mafia ha cercato sempre di far passare fra i suoi e nella società: l’essere nulla mischiato col niente senza protezione della famiglia criminale, il non esistere senza la copertura dell’organizzazione illegale; diffondere, insomma, la coscienza insana che lo Stato non serve, non basta, non provvede alle tue esigenze e bisogni, finanche alla tua sicurezza. Un’opera persuasiva, altamente etica, per l’obiettivo di ridefinire il codice di comportamento sociale, perseguita prima attraverso lo spargimento di sangue –la fase dello stragismo degli anni ’90- e poi per mezzo del controllo economico: della droga all’inizio, della finanza oggi.

Ma sempre i target di questa conquista infame sono stati la politica e la società.
Diciassette anni fa di fronte a tale tentativo di controllo e di infiltrazione, politica e società furono evidentemente deboli nell’opporsi. Con la prima che non potè nascondere la paura che Borsellino e Falcone generarono quando lambirono il ‘terzo livello’, quando cioè arrivarono al legame della mafia con le amministrazioni nazionali e locali, di fronte al quale furono costretti a fermarsi perché uccisi.

Ora la mafia ‘ammazza’ meno, non usa le armi come in passato, non si serve della droga per alimentarsi, ma preferisce la strada del business: appalti edili e sanitari, ricostruzione in Abruzzo ed Export di Milano, nomine nella Asl, riciclaggio di denaro in attività estere apparentemente innocue come la ristorazione, gestione del ciclo dei rifiuti. Calca la scena dei salotti buoni di politica e finanza, parla l’inglese, non scrive sui ‘pizzini’ dal casolare di campagna vestendo gli abiti lisi dei contadini. E soprattutto si ramifica, assume tante forme locali. Oggi non c’è la mafia, bensì le mafie, appunto declinate al plurale. Non controllano solo il territorio dove nascono, ma si estendono in tutto il Paese, in tutto il mondo, cercando l’infiltrazione in ogni attività economica.

Per contrastarla la magistratura, come intuirono per altro già Borsellino e Falcone, deve entrare nelle banche e nei conti correnti internazionali, nel meccanismo degli appalti e nei settori industriali, utilizzando le intercettazioni (che il governo sta tentando di impedire con il ddl Alfano) e operando in modo autonomo (che, sempre il governo, sta tentando di impedire con la riforma del ruolo del Pm, espropriato della sua indipendenza e privato di una forza di polizia libera, che si vuole sottoporre al controllo dell’esecutivo).

Per contrastarla, invece, la società civile deve avviare una riflessione interna profonda, chiedendosi da che parte stare e scegliendo quella della trasparenza, della legge uguale per tutti, dell’informazione libera. Esigendo verità dallo Stato, anche sullo stragismo degli anni ’90, su cui la Procura di Caltanissetta sta nuovamente indagando. C’è stata o non c’è stata la trattativa fra ‘cosa nostra’ e lo Stato italiano di cui tratterebbe il ‘papello’ di Riina, che il collaboratore di giustizia e figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Massimo Ciancimino dice di possedere? Il baratto fra pene più leggere per le cosche, la fine della morsa giudiziaria su ‘cosa nostra’, in cambio della fine della mattanza, è esistito? E Borsellino morì perché seppe di questa trattativa e si mise di traverso? Venne ucciso perché a conoscenza di quale era il ‘terminale istituzionale’, come lo chiamano Ciancimino e Brusca, che sedeva al tavolo con il capo dei Corleonesi per trattare la tregua? Senza le risposte a queste domande, che Salvatore Borsellino con coraggio ripropone sempre, sconfiggere le nuove mafie diventa uno sforzo ancora più difficile. Senza le risposte a queste domande, ricordare Borsellino e Falcone, insieme a tutte le altre vittime di mafia, è rituale vuoto, che depotenzia la forza di una rivoluzione morale e civile che, come acqua, disseti il deserto morale in cui questo Paese si sta trasformando.

(18 Luglio 2009)

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